Dal Corriere della Sera:
Costituzione, le riforme e l’antipolitica. I conservatori della carta
di Angelo Panebianco
Uno dei paradossi che caratterizzano la nostra democrazia può essere così sintetizzato: da un lato, la consapevolezza della radicale inadeguatezza della nostra carta costituzionale, del fondamentale contributo che essa ha dato e dà alle tante inefficienze della democrazia italiana è universalmente diffusa. Al punto che da circa trent’anni si tenta, senza mai riuscirci, di modificarla in profondità. Dall' altro lato, schizofrenicamente, si continua a circondare la Costituzione del '48 dell'aura del mito, spargendo retorica sugli «istituti di libertà e democrazia » che essa egregiamente difenderebbe. Come si spiega la singolare coesistenza (talvolta nelle stesse persone) della consapevolezza dei gravi difetti del testo costituzionale e di cotanta vis retorica? In linea di principio non è sbagliato tentare di difendere una costituzione mitizzandola a volte anche al di là dei suoi autentici meriti. Però, ne deve valere davvero la pena. La varrebbe se la nostra fosse simile a quella britannica (che non è un unico testo scritto ma un insieme di convenzioni e di statuti accumulatisi nei secoli), a quella americana o a quella francese della Quinta Repubblica, poiché quelle costituzioni hanno reso buoni servigi alle rispettive democrazie. Ma come si può credibilmente diffondere tanta retorica intorno a una carta costituzionale che ci ha regalato una democrazia acefala, ossia priva di un capo di governo dai forti poteri, e assembleare (l'assemblearismo è una degenerazione del parlamentarismo), un mostruoso bicameralismo simmetrico, e ben 56 governi in meno di sessant'anni, dal '48 ad oggi? E sto parlando, sia chiaro, solo della seconda parte della Costituzione, relativa ai poteri dello Stato e ai rapporti costituzionali. Non mi dilungo, invece, sulla prima parte, quella attinente ai cosiddetti «valori costituzionali ». Mi limito solo a osservare che una Repubblica democratica fondata sul «lavoro» anziché sui diritti di libertà, e nella quale il diritto di proprietà e la libertà economica sono stati rigidamente separati dai diritti fondamentali, ha sempre creato notevoli problemi alle libertà: ad esempio, ci ha lasciato senza anticorpi e difese contro gli eccessi di statalismo e di dirigismo, vizi nazionali dai quali non riusciamo tuttora a sbarazzarci. Non è chiaro perché di questa schizofrenia non riescano a liberarsi nemmeno uomini di qualità e di spessore come, ad esempio, l'ex ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini. Da un lato, Bassanini apprezza a tal punto le democrazie governanti (quelle vere) da accettare di entrare in una commissione di studio voluta dal f r a n c e s e N i c o l a s Sarkozy, un presidente i cui (enormi) poteri dipendono dalla Costituzione della Quinta Repubblica. Dall'altro lato, Bassanini contribuisce a promuovere un documento, firmato da numerose personalità, teso a ottenere dal costituendo Partito democratico l'impegno a immolarsi sull'altare del più ortodosso conservatorismo costituzionale, a difesa di una Costituzione in virtù della quale abbiamo, e continueremo ad avere fin quando resterà in vigore, una democrazia assembleare e non governante. Poiché chiedere, come fa quel documento, un impegno a blindare l'articolo 138 (quello che riguarda le revisioni costituzionali), equivale a pretendere che mai una vera riforma della Costituzione possa essere realizzata.La Francia, nel 1958, spazzò via, grazie a de Gaulle (all'epoca, stupidamente, considerato un fascista da tanti anche in Italia), una pessima Costituzione molto simile alla nostra e ben pochi colà la rimpiangono. Da noi non è possibile. Troppi sono affezionati ai poteri di veto diffusi, alle capacità di interdizione che la democrazia acefala e assembleare assicura anche alla più piccola delle corporazioni: a scapito, ovviamente, del potere decisionale dei governi. Come ha confermato anche il referendum che ha respinto la riforma costituzionale voluta dal Polo. Riforma che non era, come per eccesso di faziosità si dice nel documento sopra citato, una «controriforma » (lo ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere): era piuttosto un riforma con chiari e scuri, che conteneva alcune cose buone (il rafforzamento del potere del premier, la riduzione dei parlamentari, qualche correttivo alla folle riforma del Titolo Quinto voluta dal centrosinistra) e alcune cose cattive (soprattutto, un pasticcio in materia di poteri del Senato). Si dice: la Costituzione ha garantito la democrazia e la libertà anche quando il Paese era diviso fra comunisti e anticomunisti.Mano.Agarantire democrazia e libertà, all'epoca, fu la nostra appartenenza al blocco occidentale e a un'Europa in costruzione. Ciò che quella Costituzione «garantì » fu il fatto che la nostra democrazia fosse una delle più inefficienti all'interno di quel blocco. Peraltro, abbiamo potuto constatare, fin dagli anni 90, che le riforme del sistema elettorale, pur necessarie, non sono sufficienti per ottenere stabili democrazie governanti. E’ un punto, quest’ultimo, sul quale concordo con Andrea Manzella (la Repubblica di ieri) dal quale però mi divide la mia minore deferenza per lo «spirito costituente» del ’47 e, tenuto conto dei gravi errori (riconosciuti dallo stesso Manzella) allora commessi, per la «maggioranza costituzionale » dell’epoca. Siamo costretti a tenerci, antipolitica permettendo, la carta costituzionale che abbiamo e, con essa, la democrazia acefala e assembleare, con la sua paralisi e le sue mille inefficienze. Ci si risparmi almeno la retorica.
Angelo Panebianco
Dal Corriere della Sera del 08.10.2007
Il mito della spesa
Il Pd e la sua cultura economica Il Partito democratico affronta oggi a Roma, a una settimana dalle primarie per la scelta del suo primo segretario, il tema della «cultura economica » del nuovo partito. Due a me sembrano le questioni centrali: le tasse e la concertazione come metodo di lavoro del governo. L'attuale maggioranza ha fatto dell'Elogio delle tasse il suo motto: «Le tasse sono una cosa bellissima », ha ripetuto ancora ieri il ministro dell'Econom ia Tommaso Padoa-Schioppa. Immagino lo pensi anche delle tasse che pagano le famiglie povere per consentire ai figli dei ricchi di frequentare gratis quell'università che ai loro figli spesso è preclusa. Anche l'aliquota del 30% che paga un lavoratore dipendente per consentire allo Stato di tassare solo al 12,5% i Bot detenuti da un ricco rentier. In due anni la maggioranza ha aumentato la pressione fiscale di due punti e mezzo, ma le spese delle amministrazioni pubbliche sono rimaste là dove Berlusconi le aveva lasciate: con questa legge finanziaria continueranno ad assorbire al netto di interessi e investimenti il 40% del reddito nazionale. Questa cifra non è né troppo alta né troppo bassa: in alcuni Paesi lo Stato spende di più, in altri di meno. Il problema è che la nostra spesa pubblica non aiuta i cittadini che più ne avrebbero bisogno. Non finanzia sussidi di disoccupazione generalizzati; non aiuta le famiglie con figli piccoli (certamente non tanto quanto esse sono aiutate in Paesi in cui lo Stato spende di meno, come in Gran Bretagna); non finanzia borse di studio; non fa quasi nulla per aiutare i poveri e le famiglie a rischio di povertà. Al 20% delle famiglie più povere va solo il 12% di tutto quello che spendiamo in welfare, contro il 34% in Gran Bretagna, il 25% in Svezia, il 20 in Germania e Francia. Un terzo dei fondi stanziati a luglio per aumentare le pensioni minime andranno a famiglie che appartengono alla metà più ricca del Paese: il 10% più povero riceverà le briciole, solo il 12%. Le imprese, pubbliche e private, ricevono, sotto forma di aiuti pubblici, 15 miliardi di euro l'anno: denaro che spesso non va agli imprenditori più meritevoli, ma a quelli più abili nel frequentare le cene romane e i corridoi ministeriali. Quando i nostri figli andranno in pensione, in Italia vi saranno sette anziani ogni dieci persone in età di lavoro. Cioè dieci persone in età di lavoro dovranno produrre abbastanza per sostenerne oltre 17 (oltre, perché ci saranno anche dei bambini e dei ragazzi in età scolare). Ciononostante per consentire ai cinquantottenni di oggi di andare in pensione a Natale (e con il metodo retributivo), il governo spende 10 miliardi, prelevandoli con un aumento dei contributi a carico dei giovani precari. Non si tratta quindi, come propone Walter Veltroni, di costruire «un fisco più giusto». Il problema è ridurre la spesa perché questa spesa aiuta soprattutto coloro che sono abbastanza furbi, o abbastanza potenti, ad avvantaggiarsene. Cancellare la concertazione come metodo di lavoro del governo è il primo passo, altrimenti la spesa continuerà a fluire verso chi è rappresentato al tavolo della concertazione, e non sono certo i poveri, i giovani, le donne sole con figli. E poi occorre il coraggio di abbandonare l'illusione illuminista che questa spesa possa essere «riqualificata », resa meno ingiusta, più efficiente. La spesa migliorerà solo quando il cittadino si accorgerà che talvolta i privati possono offrire gli stessi servizi che offre un'amministrazione pubblica, ma in modo più efficiente e a costi inferiori. Agli inizi del secolo scorso più spesa pubblica voleva dire più stato sociale, meno disuguaglianza. Oggi spesso vuol solo dire più privilegi. Ma questo è un guado che la sinistra fa ancora fatica ad attraversare
Francesco Giavazzi