giovedì 25 ottobre 2007

Una nota a coté dell'affaire Mastella:
Due sere fa, a "Porta a Porta", l'ex Ministro della Giustizia Castelli riferiva serenamente di avere "insabbiato" il complicato dossier relativo alla grave situazione della Procura della Repubblica di Catanzaro, tenendolo sul proprio tavolo senza fare assolutamente nulla. Era una questione assai delicata, ha riferito l'ex Ministro, aggiungendo che il ministro di giustizia non ha l'obbligo dell'azione penale. Nessuno gli ha obiettato che se è pur vero che il ministro non ha l'obbligo dell'azione penale, ha tuttavia il dovere dell'azione ispettiva.
A quella trasmissione vi era pure il ministro Di Pietro, ormai l'unico politico a farsi paladino dell'autonomia della Magistratura. Si, perchè contro il principio cardine dello Stato Liberale, ovvero la separazione dei poteri e, dunque, anche e soprattutto la separazione del potere giudiziario da quello politico-amministrativo, si stanno muovendo concordi e compatte le armate della reazione oligarchica, di destra e di sinistra. Ciò è emerso chiaramente anche nella trasmisssione televisiva.
Ai tempi del governo di centro destra le invasioni di campo del potere politico amministrativo in quello giudiziario erano certamente deprecabili, ma perlomeno erano solo verbali. Con questo governo di centro sinistra, dichiaratosi solidale con l'operato del ministro Mastella, si giunge al punto di intimidire un magistrato e con ciò tutta la magistratura, con trasferimenti ed avocazioni di limpido stampo mafioso.
La situazione appare travalicare la "normale" dialettica politica tra schieramenti diversi, siamo alle soglie del golpe, effettuato senza armate di generali ma con le truppe ben più insidiose di una burocrazia asservita e moralmente imputridita?

lunedì 22 ottobre 2007

Ritagli

Dal Corriere della Sera:

Costituzione, le riforme e l’antipolitica. I conservatori della carta
di Angelo Panebianco
Uno dei paradossi che caratterizzano la nostra democrazia può essere così sintetizzato: da un lato, la consapevolezza della radicale inadeguatezza della nostra carta costituzionale, del fondamentale contributo che essa ha dato e dà alle tante inefficienze della democrazia italiana è universalmente diffusa. Al punto che da circa trent’anni si tenta, senza mai riuscirci, di modificarla in profondità. Dall' altro lato, schizofrenicamente, si continua a circondare la Costituzione del '48 dell'aura del mito, spargendo retorica sugli «istituti di libertà e democrazia » che essa egregiamente difenderebbe. Come si spiega la singolare coesistenza (talvolta nelle stesse persone) della consapevolezza dei gravi difetti del testo costituzionale e di cotanta vis retorica? In linea di principio non è sbagliato tentare di difendere una costituzione mitizzandola a volte anche al di là dei suoi autentici meriti. Però, ne deve valere davvero la pena. La varrebbe se la nostra fosse simile a quella britannica (che non è un unico testo scritto ma un insieme di convenzioni e di statuti accumulatisi nei secoli), a quella americana o a quella francese della Quinta Repubblica, poiché quelle costituzioni hanno reso buoni servigi alle rispettive democrazie. Ma come si può credibilmente diffondere tanta retorica intorno a una carta costituzionale che ci ha regalato una democrazia acefala, ossia priva di un capo di governo dai forti poteri, e assembleare (l'assemblearismo è una degenerazione del parlamentarismo), un mostruoso bicameralismo simmetrico, e ben 56 governi in meno di sessant'anni, dal '48 ad oggi? E sto parlando, sia chiaro, solo della seconda parte della Costituzione, relativa ai poteri dello Stato e ai rapporti costituzionali. Non mi dilungo, invece, sulla prima parte, quella attinente ai cosiddetti «valori costituzionali ». Mi limito solo a osservare che una Repubblica democratica fondata sul «lavoro» anziché sui diritti di libertà, e nella quale il diritto di proprietà e la libertà economica sono stati rigidamente separati dai diritti fondamentali, ha sempre creato notevoli problemi alle libertà: ad esempio, ci ha lasciato senza anticorpi e difese contro gli eccessi di statalismo e di dirigismo, vizi nazionali dai quali non riusciamo tuttora a sbarazzarci. Non è chiaro perché di questa schizofrenia non riescano a liberarsi nemmeno uomini di qualità e di spessore come, ad esempio, l'ex ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini. Da un lato, Bassanini apprezza a tal punto le democrazie governanti (quelle vere) da accettare di entrare in una commissione di studio voluta dal f r a n c e s e N i c o l a s Sarkozy, un presidente i cui (enormi) poteri dipendono dalla Costituzione della Quinta Repubblica. Dall'altro lato, Bassanini contribuisce a promuovere un documento, firmato da numerose personalità, teso a ottenere dal costituendo Partito democratico l'impegno a immolarsi sull'altare del più ortodosso conservatorismo costituzionale, a difesa di una Costituzione in virtù della quale abbiamo, e continueremo ad avere fin quando resterà in vigore, una democrazia assembleare e non governante. Poiché chiedere, come fa quel documento, un impegno a blindare l'articolo 138 (quello che riguarda le revisioni costituzionali), equivale a pretendere che mai una vera riforma della Costituzione possa essere realizzata.La Francia, nel 1958, spazzò via, grazie a de Gaulle (all'epoca, stupidamente, considerato un fascista da tanti anche in Italia), una pessima Costituzione molto simile alla nostra e ben pochi colà la rimpiangono. Da noi non è possibile. Troppi sono affezionati ai poteri di veto diffusi, alle capacità di interdizione che la democrazia acefala e assembleare assicura anche alla più piccola delle corporazioni: a scapito, ovviamente, del potere decisionale dei governi. Come ha confermato anche il referendum che ha respinto la riforma costituzionale voluta dal Polo. Riforma che non era, come per eccesso di faziosità si dice nel documento sopra citato, una «controriforma » (lo ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere): era piuttosto un riforma con chiari e scuri, che conteneva alcune cose buone (il rafforzamento del potere del premier, la riduzione dei parlamentari, qualche correttivo alla folle riforma del Titolo Quinto voluta dal centrosinistra) e alcune cose cattive (soprattutto, un pasticcio in materia di poteri del Senato). Si dice: la Costituzione ha garantito la democrazia e la libertà anche quando il Paese era diviso fra comunisti e anticomunisti.Mano.Agarantire democrazia e libertà, all'epoca, fu la nostra appartenenza al blocco occidentale e a un'Europa in costruzione. Ciò che quella Costituzione «garantì » fu il fatto che la nostra democrazia fosse una delle più inefficienti all'interno di quel blocco. Peraltro, abbiamo potuto constatare, fin dagli anni 90, che le riforme del sistema elettorale, pur necessarie, non sono sufficienti per ottenere stabili democrazie governanti. E’ un punto, quest’ultimo, sul quale concordo con Andrea Manzella (la Repubblica di ieri) dal quale però mi divide la mia minore deferenza per lo «spirito costituente» del ’47 e, tenuto conto dei gravi errori (riconosciuti dallo stesso Manzella) allora commessi, per la «maggioranza costituzionale » dell’epoca. Siamo costretti a tenerci, antipolitica permettendo, la carta costituzionale che abbiamo e, con essa, la democrazia acefala e assembleare, con la sua paralisi e le sue mille inefficienze. Ci si risparmi almeno la retorica.
Angelo Panebianco

Dal Corriere della Sera del 08.10.2007

Il mito della spesa
Il Pd e la sua cultura economica Il Partito democratico affronta oggi a Roma, a una settimana dalle primarie per la scelta del suo primo segretario, il tema della «cultura economica » del nuovo partito. Due a me sembrano le questioni centrali: le tasse e la concertazione come metodo di lavoro del governo. L'attuale maggioranza ha fatto dell'Elogio delle tasse il suo motto: «Le tasse sono una cosa bellissima », ha ripetuto ancora ieri il ministro dell'Econom ia Tommaso Padoa-Schioppa. Immagino lo pensi anche delle tasse che pagano le famiglie povere per consentire ai figli dei ricchi di frequentare gratis quell'università che ai loro figli spesso è preclusa. Anche l'aliquota del 30% che paga un lavoratore dipendente per consentire allo Stato di tassare solo al 12,5% i Bot detenuti da un ricco rentier. In due anni la maggioranza ha aumentato la pressione fiscale di due punti e mezzo, ma le spese delle amministrazioni pubbliche sono rimaste là dove Berlusconi le aveva lasciate: con questa legge finanziaria continueranno ad assorbire al netto di interessi e investimenti il 40% del reddito nazionale. Questa cifra non è né troppo alta né troppo bassa: in alcuni Paesi lo Stato spende di più, in altri di meno. Il problema è che la nostra spesa pubblica non aiuta i cittadini che più ne avrebbero bisogno. Non finanzia sussidi di disoccupazione generalizzati; non aiuta le famiglie con figli piccoli (certamente non tanto quanto esse sono aiutate in Paesi in cui lo Stato spende di meno, come in Gran Bretagna); non finanzia borse di studio; non fa quasi nulla per aiutare i poveri e le famiglie a rischio di povertà. Al 20% delle famiglie più povere va solo il 12% di tutto quello che spendiamo in welfare, contro il 34% in Gran Bretagna, il 25% in Svezia, il 20 in Germania e Francia. Un terzo dei fondi stanziati a luglio per aumentare le pensioni minime andranno a famiglie che appartengono alla metà più ricca del Paese: il 10% più povero riceverà le briciole, solo il 12%. Le imprese, pubbliche e private, ricevono, sotto forma di aiuti pubblici, 15 miliardi di euro l'anno: denaro che spesso non va agli imprenditori più meritevoli, ma a quelli più abili nel frequentare le cene romane e i corridoi ministeriali. Quando i nostri figli andranno in pensione, in Italia vi saranno sette anziani ogni dieci persone in età di lavoro. Cioè dieci persone in età di lavoro dovranno produrre abbastanza per sostenerne oltre 17 (oltre, perché ci saranno anche dei bambini e dei ragazzi in età scolare). Ciononostante per consentire ai cinquantottenni di oggi di andare in pensione a Natale (e con il metodo retributivo), il governo spende 10 miliardi, prelevandoli con un aumento dei contributi a carico dei giovani precari. Non si tratta quindi, come propone Walter Veltroni, di costruire «un fisco più giusto». Il problema è ridurre la spesa perché questa spesa aiuta soprattutto coloro che sono abbastanza furbi, o abbastanza potenti, ad avvantaggiarsene. Cancellare la concertazione come metodo di lavoro del governo è il primo passo, altrimenti la spesa continuerà a fluire verso chi è rappresentato al tavolo della concertazione, e non sono certo i poveri, i giovani, le donne sole con figli. E poi occorre il coraggio di abbandonare l'illusione illuminista che questa spesa possa essere «riqualificata », resa meno ingiusta, più efficiente. La spesa migliorerà solo quando il cittadino si accorgerà che talvolta i privati possono offrire gli stessi servizi che offre un'amministrazione pubblica, ma in modo più efficiente e a costi inferiori. Agli inizi del secolo scorso più spesa pubblica voleva dire più stato sociale, meno disuguaglianza. Oggi spesso vuol solo dire più privilegi. Ma questo è un guado che la sinistra fa ancora fatica ad attraversare
Francesco Giavazzi




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domenica 21 ottobre 2007

Lezioni di vita

Ripropongo, per chi non l'avesse letto, l'articolo di Pierluigi Battista, pubblicato sul Corriere della Sera del 19 ottobre. Per chi crede ancora che la politica sia possa essere animata dalla passione, non solo dalla convenienza personale.
A. Amati
Pamuk e Lessing, una lezione
Gli intellettuali alla corte dei politici
di Pierluigi Battista
Da una parte due premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, che auspicano la liberazione della letteratura dalle pretese asfissianti della politica e dell’ideologia. Dall’altra, in Italia, la folla debordante di scrittori, attori, artisti della penna e del pennello che nel nome di una effimera rivendicazione alla visibilità si accalcano alle porte dei partiti vecchi e nuovi: senza risparmio di imbarazzanti encomi al Capo, peraltro. Pamuk afferma che «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura», e Doris Lessing che «i manifesti uccidono gli scrittori ». Ma c’è da scommettere che, tranne lodevoli eccezioni, l’esortazione di Pamuk e Lessing non riscuoterà molti consensi.
Qui i «manifesti » proliferano, ultimo quello dei registi che si mettono in fila alla Festa romana del cinema per incrementare le già cospicue erogazioni statali per i loro film. E c’è sempre una buona Causa cui consacrare impegno e pubbliche relazioni. E’ tramontato già da tempo il sole dell’«intellettuale organico», ma è come se per scrittori e artisti la solitudine, l’irregolarità, la non appartenenza frutto di una condizione eccentrica e «disorganica » fossero un prezzo troppo salato, una condizione esistenzialmente troppo onerosa e inappagante. Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago ed Harold Pinter. E le loro parole sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a «funzionario dell’Umanità ».
Ma in Italia la fine di una stagione militante e ideologica che ha generato, oltre a ottusi dogmatismi e imperdonabili censure, anche una passione creativa ineguagliata nell’èra del disincanto, ha depositato qualcosa di più e di peggio: un’attitudine adulatoria nei confronti della politica che conferma una vocazione cortigiana forgiatasi nei secoli; un’inclinazione subalterna che, spogliata di ogni riferimento ideologico forte, si rivela soltanto come una forma di soggezione supplice verso il potere politico. Dimostrarsi sensibili all’appello di Orhan Pamuk e Doris Lessing comporterebbe per gli intellettuali italiani riconoscere che ciò che di meglio ha partorito la cultura dell’Italia repubblicana è cresciuto al di fuori degli apparati e degli uffici dove si dispensavano gli attestati di fedeltà ideologica: da Montale a Gadda, da Contini a Longhi, da Flaiano a Fellini, da Brancati a Elsa Morante.
Non fuori della politica, la cui febbre travolgente e contagiosa ha anzi grandiosamente fecondato l’arte e la letteratura moderne. Ma nemmeno in un rapporto ancillare con la politica, con le estetiche di partito, con i manifesti, le dottrine, le candidature, i panegirici, con il moltiplicarsi delle buone Cause. Riconoscere questa eredità, l’unica a restare salda nelle macerie ideologiche del passato, permetterebbe di afferrare il divario stridente tra le parole accorate dei due Nobel e il modo con cui la cultura italiana si adopera per stringere rapporti pericolosi con la politica, con eccessi che mettono in imbarazzo gli stessi politici. Lontana dagli eroismi di un tempo lontano e succube del clamore dei media. Per un posto al sole che non è nemmeno più il sol dell’avvenire.
19 ottobre 2007

giovedì 18 ottobre 2007

lettera di Daniele Capezzone


Consigli al centrodestra

By Daniele Capezzone, on giovedì 18 ottobre 2007

Non troppo tempo fa, in occasione del lancio di non so più quale romanzo di Walter Veltroni, una nota scrittrice, in una indimenticabile -chiamiamola così- recensione, non ebbe remore né scrupoli, e fece i nomi di Pirandello e Musil: anche il Corriere della Sera non ebbe remore né scrupoli, e pubblicò tutto in bella evidenza. Figurarsi se, dopo le primarie di domenica scorsa, qualcuno avrà remore o scrupoli, ed eviterà di fare i nomi di Blair o di Sarkozy.
Fuor di scherzo, dopo l’indubbio successo numerico delle primarie di domenica, non occorre troppa fantasia per comprendere quale sarà la strategia di Veltroni: creare, sia pure in modo (apparentemente) morbido, una nettissima cesura di immagine rispetto all’era Prodi. Alimentare la convinzione che vi sia un “prima” e un “dopo”, e che il “dopo” non abbia nulla a che vedere con i diciassette-mesi-diciassette di uno dei Governi più screditati della storia della Repubblica.
Invano, quindi, si chiederà conto a Veltroni delle attività o dei misfatti del Governo: Veltroni agirà tamquam Prodi non esset, come -cioè- se vi fosse una sorta di estraneità tra il PD e la vecchia compagine governativa. Si pensi al pasticciaccio del welfare: in questi giorni, Veltroni è riuscito a non pronunziare una sola parola sull’argomento.
Il resto del compito sarà affidato alle …“recensioni”. Gli editorialisti “giusti” sapranno ogni giorno cogliere le sgrammaticature e gli svarioni di Prodi (che, effettivamente, si fanno sempre più imbarazzanti: e solo qualche “ultimo -o penultimo- giapponese” sembra non accorgersene…), e, contemporaneamente, sapranno illuminare i tratti innovativi, perfino di rupture, della NFV (Nuova Fase Veltroniana). Veltroni stesso alimenterà questo corso delle cose: e -credo- si permetterà molto presto il lusso di qualche intervento assai meno vago, fumoso ed evasivo, rispetto a quanto detto finora (peraltro, se venisse qualche proposta interessante, sarebbe un bene per tutti, ovviamente). E comunque, alla luce di tutto questo, c’è da scommettere su una consistente crescita, anche nei sondaggi, del PD.
Aggiungiamo che pezzi consistenti dell’establishment italiano, a propria volta convintisi della impresentabilità del Governo Prodi, sono entrati nell’ordine di idee di liquidarlo. Ma, nello stesso tempo, mossi da una incancellabile ostilità nei confronti di Berlusconi, sono pronti a tutto pur di evitare elezioni subito, e spingono per un governicchio destinato a durare più di qualche mese. Dopo di che -è la loro speranza, ma anche il loro obiettivo-, passato almeno un annetto, Berlusconi potrebbe essere meno avvantaggiato di oggi, Veltroni sarebbe certamente cresciuto in immagine e nei numeri, e -allora- potrebbe nascere una “cosa nuova”, più o meno da presentare come liberale e riformatrice, pronta ad allearsi con Veltroni, in nome del “nuovo conio”, e allo scopo di scongiurare il ritorno dell’odiato Cavaliere a Palazzo Chigi.
E’ per questo che il centrodestra, a mio avviso, farebbe bene a non sottovalutare gli eventi in corso. Ed è per questo che non dovrebbe solo adagiarsi sulla pessima prova di governo dell’attuale centrosinistra, ma avrebbe il dovere di mettere in campo alcune idee-forza, alcuni obiettivi concreti, qualcosa che possa ricreare un “mainstream”. Proprio Blair e Sarkozy ci hanno insegnato che il punto non è scegliere una “collocazione” centrale o centrista nella cartografia politica, quanto piuttosto definire un’agenda, stabilire di cosa parlare (e su cosa far parlare gli avversari), scegliere il terreno lessicale e contenutistico di gioco.
Nel nostro piccolo, noi di Decidere.net abbiamo offerto a tutti 13 questioni concrete, a partire da una rivoluzione fiscale possibile: il passaggio in cinque anni ad una flat tax del 20%. E abbiamo già chiarito, con cifre e dati, che questo obiettivo apparentemente irraggiungibile è -invece- lì, a portata di mano. Ciascuno comprende cosa significherebbe affrontare una campagna elettorale con un simile elemento di forza dalla propria parte.
Ma anche al di là delle nostre proposte, resta -per tutti- l’esigenza di non “attendere”, di mettere in campo progetti convincenti (e coinvolgenti!) di trasformazione dell’esistente.
Nel ’94 Berlusconi sconfisse la “gioiosa macchina da guerra” perché seppe creare una situazione nella quale a lui poteva essere assegnata la patente di “nuovo” e di “riformatore”, e agli altri quella di “conservatori”. Occhio: perché la “gioiosa macchina da guerra” si sta ricostituendo, e -stavolta- il pilota, abile come pochi altri, sta anche cercando di procurarsi la patente “giusta”.
Scritto da Daniele Capezzone per Il Foglio

martedì 16 ottobre 2007

spunti di riflessione

Taglio ed incollo l'articolo del Prof. Sartori
pubblicato su www.illegnostorto.com
Andrea

Lo stupidume elettorale



Scritto da Giovanni Sartori
martedì 16 ottobre 2007

Giorni fa Michele Salvati scriveva su queste colonne del «rompicapo dei riformisti». Questo: che una sinistra liberale e di governo «non può vincere né con la sinistra radicale né senza di essa». L'abbiamo già detto in tanti. Ma se lo dice un «esterno», la Casta cestina subito. Se invece lo dice Salvati, che è un protagonista rispettato e importante, la Casta dovrebbe ascoltare. Invece niente, cestino anche per lui.Senza dubbi di sorta (nel capo) il vice di Veltroni, Dario Franceschini, ribadisce che il nuovo sistema elettorale non deve tornare alle «mani libere » di quando le maggioranze si formavano dopo il voto, e che all'elettore non deve essere tolta la «maggiore libertà » di scegliere le coalizioni di governo e il candidato premier. Davvero maggiore libertà? Oppure intollerabile sopraffazione?Quel che so è che nel vituperato passato ho sempre votato e cambiato voto senza problemi, mentre di recente non sapevo per chi votare. Mettiamo, per illustrare, che io mi senta di sinistra. Le sinistre sono tante. Ma invece io mi trovo al cospetto di un indigesto polpettone, di un pacchetto preconfezionato de omnibus rebus et quibusdam aliis, che per metà include proposte che disapprovo. Per esempio, io approvo la pensione a 60 e più anni, la legge Biagi, la priorità di ridurre il debito pubblico; e per di più non mi piace Prodi. Eppure il polpettone mi impone di approvare quel che non voglio; dopodiché mi sento raccontare, ultima beffa, che il povero Prodi fa per me quel che io gli ho chiesto di fare. Ma quando mai? Il programma di governo dell'Ulivo è stato negoziato e parcellizzato tra le oligarchie di partito, e in quella confezione il demos non c'entra per niente. E il sottoscritto ancora meno. E, mutatis mutandis, lo stesso vale se io mi sentissi di destra.Torno a Salvati e al suo «rompicapo». La situazione del «vincere (le elezioni) per perdere (la governabilità)» è una classica situazione no win, di un gioco non-vincibile. E in tal caso la dottrina spiega che il gioco è sbagliato e che va giocato diversamente. Per esempio tornando al normale gioco dei sistemi parlamentari. Cosa osta? Osta soltanto lo stupidume inventato in Italia. Perché solo in Italia si racconta al popolo bue che il Parlamento non deve avere «mani libere», mani libere per cambiare, occorrendo, coalizioni e leader. E' intelligente o stupido tenersi per 5 anni una coalizione paralizzata? Per noi è intelligente; ma per il resto del mondo (e anche per me) è stupido. E' intelligente o stupido godersi per 5 anni un capo del governo che non sa governare? Per noi è intelligente; per il resto del mondo (e anche per me) è stupido.Un ultimo punto. Per salvare un bipolarismo rigido e sbagliato (quello che ci occorre si salva benissimo da solo) noi abbiamo imboccato la china delle coalizioni «massime »: tutti dentro, cani e gatti (più la repubblica di Ceppalonia). Il che contraddice la teoria delle coalizioni, che invece raccomanda coalizioni minimum winning ecioè «minime», il meno estese possibile. E questo perché la dottrina sa da gran tempo che tanto più si allarga e tanto più una coalizione sarà eterogenea e bloccata da conflitti interni. La dottrina sì, ma Prodi no. E se Veltroni ha approvato il testo di Franceschini, allora non lo sa nemmeno lui. È anche un cattivo esordio che Veltroni abbia ricusato il sistema tedesco. Ignoro chi consigli, in materia, il Pd. Speriamo che non siano i soliti noti.Da: corriere.it
Taglio ed incollo dal sito www.Neolib.com l'articolo dell'amico Marco Faraci ed una piccola discussione che spero sia interessante. Da notare: l'ordine cronologico è invertito: i primo commenti sono, in ordine di tempo, gli ultimi
Daniele, è tempo di decidere!
By Marco Faraci, on lunedì 15 ottobre 2007
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Ormai sono passati cinque mesi e mezzo dal varo di Dec!dere.net, il network di Daniele Capezzone.Il bilancio parziale che può essere tratto è solo parzialmente positivo. Se da un lato è stato infatti delineato un interessate programma politico liberale e liberista, dall'altro va riconosciuto che Dec!dere.net non ha sfondato dal punto di vista del seguito e del riscontro mediatico.Nel momento in cui Daniele Capezzone si è di fatto staccato dall'attuale maggioranza di governo, le tv e i giornali, che fino a poco prima erano stati con lui tutto sommato generosi, hanno cominciato ad ignorarlo. La manifestazione sulle pensioni del 22 settembre è stata un'importante occasione di contatto tra le diverse realtà liberali di questo paese, ma è stata al tempo stesso un insuccesso nei numeri, specie se paragonata ad iniziative di piazza di altri colori nelle stesse settimane.
E' difficile pensare che esistano nel medio periodo quegli spazi per una crescita di Dec!dere.net che possano consentire a Daniele Capezzone di disporre un domani di un potere contrattuale superiore a quello che ha in questo momento.Al contrario Daniele rischia semmai di essere penalizzato dalla scarsa chiarezza della sua collocazione.Finora il leader diDec!dere.net ha scelto una tattica tipicamente pannelliana. "Prima i contenuti, poi si vedrà per i contenitori". "Sono gli altri che devono rispondere ai problemi che pongo". "Sono gli altri che devono scegliere se stare con me, non io con loro".I Radicali di Marco Pannella per anni hanno ripetuto questo mantra, con progressivo insuccesso e progressiva irrilevanza. Così facendo hanno disperso un grande patrimonio di voti e di credibilità.Capezzone obiettivamente è meno forte di quanto lo fossero i Radicali alcuni anni fa ed a maggior ragione non può permettersi di affrontare il progressivo logorio della solitudine.Per Daniele è ormai tempo di decidere. Senza maiuscola e senza punto esclamativo. E sono due le decisioni fondamentali che è chiamato a prendere.La prima è quello dello schieramento in cui intende impegnarsi, dello schieramento che vuole cercare di migliorare. Non potrà aspettare che la montagna vada da Maometto. E' Maometto che deve decidersi ad andare alla montagna.La seconda riguarda le modalità della sua presenza nello schieramento. Capezzone deve scegliere e perseguire un progetto in buona sostanza individuale, muovendosi in un certo senso all'americana", oppure se impegnarsi in un progetto di valenza più ampia, facendo squadra con altri liberali e liberisti nell'ambito di un movimento o partito unitario.Da questo punto di vista se Daniele sceglierà il centro-destra non troverà certo terra bruciata, bensì troverà movimenti e personalità che da tempo si battono in quella parte politica a difesa del concetto liberale di libertà. Con queste realtà - ed in particolare con la più significativa tra queste, i Riformatori Liberali di Benedetto Della Vedova - Daniele dovrebbe avviare un serio confronto.Oggi la politica italiana vede rappresentate, in una miriade di partiti, tutte le tendenze politiche, d eccezione proprio di quella liberale. Questa assenza è pesante ed ha gravi conseguenza. L'auspicio è quindi che finalmente si pongano le basi per una forza politica elettoralmente rappresentativa che dia voce alle istanze liberali e liberiste.L'incontro tra Benedetto Della Vedova, Marco Taradash e Daniele Capezzone potrebbe porre le basi di una simile compagine - ma tutto passa innanzitutto dalle decisioni che Dec!dere.net dovrà prendere. Decisioni che a questo punto non possono più essere rimandate.

By: andrea amati (Registered) on 15-10-2007 16:15
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difendo i contenuti
By: andrea amati (Registered IP 62.94.234.45) on 15-10-2007 16:15
I contenuti contano caro Pacor, devono contare. Se tu avessi ragione non starei neanche a perdere tempo su questo ed altri siti simili. E tu neanche. In altri Paesi le ragioni dell'intelligenza e della moderazione hanno avuto successo. In Italia sembra che ci entusiasmino solo le faziosità inutili. Ma chi la dura la vince no? by the way, tertium non datur

» Daniele deciditi!
By: LucaF. (Guest) on 15-10-2007 12:16
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Daniele deciditi!
By: LucaF. (Guest IP 157.27.6.113) on 15-10-2007 12:16
L'articolo e i commenti qua presenti sono oggettivamente lo specchio di una realtà che ho più volte preventivato quale rischio. Daniele deve decidere, e dato che le premesse e i dialoghi con le altre forze politiche sono già in cantiere atttorno a Decidere.net se davvero non vuole ridursi a fare solo opinionismo, ma vera e concreta politica riformatrice, deve iniziare a lanciare un tavolo unitario di tutte le forze liberali, liberiste, libertarie e laiche che pur considerando il centrodestra loro ambito bipolare, non rinunciano a considerarsi portatori di principi e valori che ora come ora risultano sempre più distanti dalle ambizioni e dalle politiche portate avanti dal contenitore democristiano Fi e da quello conservatore AN. Non possiamo ridurre il liberalismo entro un PDL che cercherà aspramente di contendersi il voto cattolico con il PD. I liberali devono unificarsi in autonomia per contare veramente a livello mediatico ma soprattutto di contenuti. Sul forum di Decidere ho scritto una proposta a tappe su come dovrebbe avvenire tale progetto unitario liberale, utile per un centrodestra che altrimenti rischia pure di perdere gran parte dei consensi fin qui ottenuti, per incapacità manifesta di Prodi. Daniele non può aspettare ancora molto, anche perchè se il governo cade, l'anno prossimo si vota, quindi entro pochi mesi sarebbe auspicabile iniziare a lanciare una costituente e uno statuto aperto e coerente per trasparenza ai liberali e alla partecipazione spontanea dei sostenitori. Le iniziative di opinione servono se sono suffragate dalla politica dei fatti, Daniele mi pare che a volte tenda a considerare ancora una politica dell'attendismo e della concertazione quale valido mezzo per poter apparire e contare. Si conta non solo se si hanno idee ma anche capacità di rischiare politicamente. LucaF.
Oggi i contenuti non contano niente.
By: Gionata Pacor (Guest) on 15-10-2007 10:45
Oggi i contenuti non contano niente.
By: Gionata Pacor (Guest IP 172.158.21.68) on 15-10-2007 10:45
Caro Amati, oggi purtroppo i contenuti non contano niente. Lo dimostra il fatto che Daniele ha fatto 2 mesi di pubblicità alla sua manifestazione di Milano e sono venute 200 persone. Andando avanti così decidere è destinato a fallire miseramente. Poi tieni conto che Daniele ha sempre detto di non voler fare un partitino, e questo esclude l'opzione di un partitino fuori dalle coalizioni. Infine... per favore... non parlarmi di personalismi...

»Daniele come Davide?
By: andrea amati (Registered) on 15-10-2007 10:00
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Daniele come Davide?
By: andrea amati (Registered IP 62.94.234.45) on 15-10-2007 10:00
Bravo Faraci, tuttavia il vecchio mantra pannelliano (ormai da Pannella abbandonato) non mi pare così disdicevole. Nella confusione di partiti auto-nominati liberali che popolano gli opposti schieramenti (liberali che aderiscono al partito democratico, partiti liberal-denmocratici che non aderiscono al partito democratico, liberali che stanno con Forza Italia, partito questo che, diciamolo francamente, di liberale non ha proprio niente, Riformatori Liberali), i contenuti sono importanti. L'individualismo patologico è forse il male oscuro che affligge i liberali italiani, divisi e dispersi in mille micro-entità. L'esigenza primaria è quella di ritrovarsi, non per agitare inutili bandiere, ma per evidenziare dei contenuti. Per me è il momento giusto e non dobbiamo perdere l'occasione: infatti con gran fanfara è nato un macro-partito che brilla per la sua totale assenza di contenuti. Forse un piccolo partito ricco di contenuti potrebbe opporsi validamente, come il piccolo David al possente Golia. Sempre che il piccolo David non venga prematuramente abortito. Con stima, Andrea Amati