Scuola, il tabù dei concorsi
di Francesco Giavazzi
Ha fatto bene il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, a porre la questione della motivazione, anche economica, degli insegnanti. Nessuna azienda privata penserebbe mai di aver successo con dipendenti sfiduciati, senza entusiasmo per il loro lavoro. Tanto meno la scuola che ha il compito di formare il capitale umano e sociale (cioè insegnare le regole di una convivenza civile), beni che non si producono senza motivazione, dedizione, orgoglio per il proprio mestiere. Sono pagati troppo poco i nostri insegnanti? A Milano forse sì, a Noto, dove la vita costa la metà, non so. Ma se gli stipendi fossero davvero così bassi, perché ci sono le code ai concorsi, perché cinquantamila precari premono per essere assunti nella scuola anziché cercare lavoro altrove?
La realtà è che la scuola oggi offre un contratto perverso: un salario modesto in cambio di nessun controllo, neppure se l'insegnante è evidentemente incapace, neppure se passa da una assenza per malattia all'altra. Gli ottimi insegnanti, e sono moltissimi, in particolare negli asili e nelle scuole elementari, non lo sono per effetto di un sistema di incentivi ben disegnato. Sono semplicemente dei «santi». Questo, ognuno lo vede, non può essere il criterio sul quale fondare un sistema scolastico. Prima ancora di affrontare il problema dei criteri con i quali determinare le retribuzioni degli insegnanti, la scuola deve chiedersi se il modo in cui oggi li assume sia adatto a selezionare gli insegnanti migliori.
Perché se si assumono le persone sbagliate non c'è alcun sistema di valutazione capace di rimediare a quell’errore. Persino le aziende di modesta dimensione oggi dedicano grande attenzione alla selezione del personale; e la scuola invece che fa? Si affida ai concorsi pubblici, un sistema palesemente incapace di evitare l'assunzione di persone che non dovrebbero fare gli insegnanti. In un concorso pubblico chi sceglie, cioè la commissione preposta al concorso, non subisce le conseguenze di una scelta sbagliata. Nella migliore delle ipotesi i commissari si limitano alla verifica dei requisiti formali, non si chiedono se il candidato sia adatto all'insegnamento, tanto meno all'insegnamento in una particolare scuola — né d'altronde potrebbero, dato che lo stesso vincitore è assegnato indifferentemente ad una scuola media di un quartiere ad alta immigrazione e difficili problemi di integrazione, o ad un liceo scientifico sperimentale in cui si insegna matematica avanzata.
Il primo passo per una riforma della scuola è quindi l'abbandono dei concorsi pubblici e la loro sostituzione con un sistema in cui le assunzioni vengono decise da chi poi sopporta le conseguenze di un'eventuale decisione sbagliata, in primo luogo i presidi di ciascuna scuola. Come ha scritto Andrea Ichino su www.lavoce.info, il maggior limite del Libro Bianco sulla Scuola pubblicato dal governo Prodi è la sua reticenza sui concorsi, frutto di un'ideologia che fa fatica ad accettare che gli incentivi, il «mercato » possano funzionare meglio dello Stato. Spero che il nuovo ministro sia più coraggioso. Chiamiamoli pure concorsi locali, stabiliamo pure alcuni requisiti formali, ma lasciamo spazio ad una valutazione discrezionale da parte del preside; se vuole offrire un corso di biologia deve poter assumere, magari a tempo parziale, un dottorando biologo, non essere costretto ad accettare il primo della graduatoria che ha raggiunto quel posto solo per anzianità.
Oltre ai casi di negligenza e assenteismo, anche un insegnante che si limita alla noiosa routine quotidiana crea un danno irreparabile perché viene meno al suo compito di formare un cittadino responsabile. Un bravo preside deve saper scoprire se il candidato sia un buon insegnante, talento che non tutti hanno in egual misura e che nessuna scuola di formazione professionale può insegnarti se non lo possiedi. Concorsi locali si svolgono da alcuni anni nell'Università, con risultati disastrosi. Ma l'errore, nell'Università, non è stata l'abolizione dei concorsi nazionali e la loro sostituzione con concorsi locali. L'errore è non aver accompagnato questa riforma con un serio sistema di valutazione. I presidi di scuola e le facoltà devono poter assumere gli insegnanti che ritengono più adatti, ma se sbagliano devono subire le conseguenze dei loro errori. Altrimenti, come accaduto nell'Università, assumeranno i raccomandati o i figli e i nipoti dei colleghi. La selezione e i poteri dei presidi devono evidentemente cambiare.
Oggi i dirigenti scolastici sono di frequente burocrati senza potere: non è quindi sorprendente che siano spesso scadenti. Stabilizzare cinquantamila insegnanti precari, come il ministero si appresta a fare, è un errore che avrebbe conseguenze irreparabili sulla scuola. Magari sono tutti ottimi insegnanti, ciascuno il più adatto per la scuola in cui insegna, ma questo deve essere deciso dai presidi, non dall'automatismo delle graduatorie. La valutazione (obbligatoria per tutte le scuole, non effettuata a campione su poche scuole) è complemento essenziale dell'abolizione dei concorsi. Ma valutare le scuole senza averle prima poste nella condizione di scegliere i propri insegnanti non ha alcun senso. Né ha senso valutare le scuole senza aver prima introdotto maggior flessibilità nei percorsi di studio. Siamo davvero sicuri che il ministro o una commissione ministeriale siano capaci di scegliere i programmi migliori? Non funzionerebbe meglio—come dimostra l'esperienza dei Paesi anglosassoni e scandinavi — un sistema nel quale gli insegnanti, investiti della responsabilità di progettare i loro corsi, decidano che cosa insegnare e in che sequenza?
Percorsi differenziati valorizzano la professionalità degli insegnanti. Introducono anche un po' di concorrenza fra le scuole e richiedono che le famiglie si informino sui percorsi offerti dalle varie scuole e sulla loro qualità. Allo Stato rimane il compito di valutare ex post. Oggi invece accade l'esatto contrario: nessuna autonomia degli insegnanti e nessuna, o quasi, valutazione conseguente. Il risultato sono i test PISA dai quali le scuole italiane (con importanti eccezioni, come le scuole del Trentino Alto Adige, della Valle d'Aosta e di alcune province lombarde) emergono fra le peggiori d'Europa. Ma la valutazione non basta, neppure se accompagnata da forti incentivi alle scuole migliori. Per essere efficace l'informazione sulla qualità deve essere disponibile alle famiglie e queste devono poter scegliere in che scuola iscrivere i propri figli.
Il sistema dei «buoni scuola» che una famiglia può spendere nell’istituto che preferisce, pubblico o privato, può funzionare, purché accompagnato da verifiche indipendenti e severe. Altrimenti, come è accaduto in alcune regioni durante le esperienze effettuate dal ministro Moratti, i «buoni» sono solo un regalo alle scuole private che promettono facili promozioni (vedi Tullio Jappelli e Daniele Checchi su www.lavoce.info). Questa settimana il governo approverà un progetto triennale per i conti pubblici. Come sempre accade in queste occasioni, i vincoli di spesa imposti dal ministro dell'Economia si scontrano con i programmi dei suoi colleghi, in primis del ministro dell'Istruzione, dal quale dipende quasi la metà di tutti i dipendenti pubblici. L'esperienza di molti esercizi simili svolti da governi passati — incluso il precedente governo Berlusconi — è che in assenza di riforme radicali del modo di agire delle amministrazioni pubbliche questi numeri sono cifre scritte sull'acqua e presto dimenticate. Il ministro Gelmini difende la scuola, ma per essere credibile deve avere il coraggio di abbandonare il tabù dei concorsi pubblici.
15 giugno 2008